Mi chiamo Paola Pesante e sono sempre stata affascinata, fin da ragazzina, dal mondo delle immagini: dipinti, fotografie, manifesti pubblicitari, graffiti, illusioni ottiche… tutti interessi che ho continuato a coltivare all’università e nel tempo libero, e coltivo tuttora, in età più che adulta.
Ma il vero incontro con la fotografia ha avuto luogo grazie a un corso in orario extrascolastico proposto a studenti e studentesse del primo biennio delle superiori da quello che allora si chiamava Piccolo Sillani – poi ha cambiato nome, è diventato un intrigante artista concettuale, ma per me è rimasto sempre il Piccolo Sillani di quel corso, grazie al quale ho imparato tutto quello che ancor oggi so su macchine fotografiche, camera oscura, sviluppo, profondità di campo, diaframma, sensibilità della pellicola …

Fotografo quello che vedo, che mi colpisce: mi piace inquadrare, cogliere il particolare, il momento. Non mi dedico alla post produzione – anche se quel poco di camera oscura che ho fatto mi è piaciuto tantissimo.
E così, anche se ho cambiato negli anni varie macchine fotografiche, e ho fatto anche altri corsi, non ho mai approfondito la dimensione tecnica, il che mi separa anni luce dalla figura del vero fotografo amatoriale/dilettante/quasi professionista.
Col passare del tempo mi sono avvicinata sia al Circolo Fotografico Triestino che al Circolo Fotografico Fincantieri Wartsila, seguendo le loro attività e annusando, un po’ da lontano l’ambiente degli appassionati di foto, che mi attira ma nei confronti del quale, proprio per la mia congenita indolenza, mi sento in soggezione.

Con il digitale, come tutti, ho cambiato il mio modo di fotografare. Adesso scatto più fotografie, senza il patema dei rullini da 36 non uno di più non uno di meno, ma non scatto a mitraglia, perché poi non saprei scegliere cosa salvare e cosa buttare. Già così, molto spesso il piacere di fotografare si esaurisce per me nell’atto di inquadrare e scattare. Poi a casa scarico tutto nel computer e lì molto spesso resta tutto: farò, farò, farò … quando avrò un po’ di tempo.

Qualche volta mi sembra di aver fatto belle fotografie, ma soprattutto penso che ho avuto veramente fortuna a poter viaggiare, guardare e vedere come ho fatto in questi ultimi anni. E fotografare è anche, per me, un segno di gratitudine nei confronti di ciò che vedo.
Questa è per me la prima volta che faccio una mostra e sono molto emozionata. Non pretendo di diventare famosa, ma forse è meglio che alla mia età incominci a mettermi in gioco.

A Le vie delle Foto porterò la mostra “Ciapini”:

Esci dopo un’intera giornata passata aggirandoti fra i padiglioni della Biennale. Come sempre, un’esperienza un po’ sconvolgente. Una ridda di impressioni contrastanti sul senso di fare arte, sull’uso delle immagini, della rappresentazione artistica.
E poi, tornando verso piazza San Marco, lungo Riva dei Sette Martiri, uno scorcio irrinunciabile: un ampio arco si affaccia e separa il mondo di qua dal paese dei ciapini. Il paradiso dei ciapini. Secondo me le case in quel fazzolettino di Venezia sono abitate esclusivamente da persone che non escono mai, lavano tutto il giorno i loro panni e fanno una lavatrice dietro l’altra solo per poterli mettere ad asciugare, riempiendo il cielo di colori appesi alle corde stese tra una facciata e quella di fronte, in più file corrispondenti al primo, al secondo, al terzo piano. Ogni Biennale torno, ogni Biennale esco frastornata e mi rassereno ritrovando questa festa di panni e ciapini.
Ecco: credo che sia nata lì la mia passione per i ciapini, le umili mollette da bucato. E accadeva molti anni fa (c’erano ancora le diapositive, per intenderci).
Poi il resto è venuto da sé: ho incominciato a fare qualche viaggio più impegnativo, extraeuropeo. E ogni volta ho incontrato qualche ciapin, già impegnato al lavoro, per difendere lenzuola, camicie, calzette dai furti perpetrati dal vento – o in attesa, magari bagnato di pioggia. Sono piccoli lavoratori fedeli, i ciapini. E se uno si mette a cercarli con lo sguardo e la macchina fotografica in mano, li trova dappertutto, dal Mali all’Islanda. Piccoli ambasciatori della globalizzazione. Oddio, in qualche paese, è vero, non li ho trovati: in Tanzania, ad esempio – i masai non amano i ciapini (sarà per questo che sono così scontrosi?).
Anche la montagna – l’altra mia grande passione, oltre alla fotografia – è popolata di ciapini. Bene lo sanno i frequentatori dei rifugi che trovare una manciata di ciapini e potersene impadronire per mettere ad asciugare le proprie cose fradice di pioggia o zuppe di sudore è uno straordinario colpo di fortuna. Basta ricordarsi di correre fuori e tirarle dentro quando ricomincia a piovere.
Nel dialetto triestino si dice anche ‘faccia da ciapin’: questa dimensione della fisiognomica non l’ho ancora esplorata. Forse c’è spazio per un’altra mostra…