Mi chiamo Luca Cameli e sono nato a San Benedetto del Tronto nel 1976. Da sempre sono stato attratto e incuriosito dall’arte dell’istantanea, la fotografia.

Da piccolo mi esercitavo con la reflex a pellicola di mio padre che ancora oggi custodisce gelosamente. Poi negli anni successivi ho un po’ abbandonato quest’arte per riprenderla e farne il mio lavoro da 3 anni circa. Per passione, e anche per esigenza.
La fotografia è un mondo infinito che si suddivide in varie categorie, ma quella di cui io sono sempre stato attratto è il reportage perché, secondo me, cogliere l’attimo e renderlo eterno è l’essenza dell’arte dell’istantanea.

Il mio motto aziendale è “Una foto è come un diamante… È per sempre!”

Ho studiato i reportage dei grandi maestri come Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, William Eugene Smith, Mario Dondero fino ai grandi fotografi dei nostri giorni come Michael Freeman e Steve McCurry.

«Ho fatto delle foto.
Ho fotografato invece di parlare.
Ho fotografato per non dimenticare.
Per non smettere di guardare»,

Il giorno dopo il sisma, ispirato dalle parole di Daniel Pennac, ho deciso di effettuare il reportage nelle numerose zone colpite.
Esattamente il 26 agosto, 2 giorni dopo la scossa che causò circa 300 vittime, ho conosciuto in quel di Arquata del Tronto il giornalista di cronaca Mediaset Remo Croci. Lui è rimasto piacevolmente colpito dal mio modo di fotografare riservato e rispettoso nei confronti delle persone che hanno perso tutto o quasi.
Così è nata una collaborazione per il suo instantbook 3:36 – La Scossa Assassina, utilizzato per una raccolta fondi per l’associazione Omnibus Omnes di Arquata del Tronto.

In questo modo è iniziato il mio viaggio nel cratere sismico a più riprese perché ancora oggi il “mostro” non vuole andar via.
Un viaggio pieno di emozioni di vari tipi, dalla tristezza e angoscia mentre perlustravo e fotografavo le zone rosse al coraggio che mi trasmettevano i cari e veri eroi, i vigili del fuoco, e le persone, gli angeli, che sono sopravvissuti con i loro racconti e la loro voglia di continuare.
Ho camminato sopra un metro e mezzo di macerie dove una volta c’era il corso di Amatrice, sono entrato nelle zone rosse di Arquata del Tronto, Trisungo, Spelonga, Montegallo, Illica, Accumoli, Muccia, Visso e, appunto, Amatrice.
In tutte queste località c’era un unico comune denominatore:
sembrava uno scenario che era paragonabile a quello di un bombardamento di guerra.
Spaventoso il contrasto del caos e del rumore che c’era nei primi 30/40 giorni circa con il silenzio assordante che è seguito, una volta terminato il ritrovamento delle vittime.
Ogni sera che tornavo verso casa, mentre ero alla guida, saliva un brivido sulla schiena per quello che avevo visto e per i racconti dei superstiti.
Riprovavo, tutte insieme, le emozioni sulle quali, durante le riprese, non avevo avuto tempo di soffermarmi.
Abbiamo attraversato zone rosse, dove quelle case, o meglio pezzi di case, potevano crollare definitivamente da un momento all’altro.
A volte dovevamo correre.
Il terreno ogni tanto tremava, anche durante le riprese e perlustrazioni, ma bisognava andar avanti perché io come tanti altri fotografi e operatori avevamo il dovere di raccontare e mostrare qual era la reale situazione. Se avevano la forza di andare avanti i sopravvissuti, dovevamo averla anche noi, anche solo per rispetto nei loro confronti.

Perché ho voluto immortalare questo dramma? Per non dimenticare.
Tendiamo a dimenticare troppo facilmente e non è giusto.
Per noi stessi, per la nostra storia, per le persone morte, per chi ha perso tutto.